Il futuro delle tecnologie energetiche ed informatiche messo in crisi dalla scarsità ed iniqua distribuzione di materie prime: le terre rare

Mentre ci interroghiamo sulle parole di Monti,  politici , economisti, sindacalisti , banchieri , si confrontano sui temi della crescita e del lavoro  con teorie a dir poco imbarazzanti in relazione alla reale situazione del paese.  La green economy  viene presentata e sbandierata come la panacea di tutti i mali di questo secolo.  Tutto questo e molto altro appartiene a un modello economico che non tiene mai conto dei limiti naturali di energia e materia prima che sono l’essenza di ogni cosa. Lo sviluppo delle energie rinnovabili in Europa potrebbe essere presto frenato dalla mancanza di disponibilità di alcune materie prime. Questo pericolo è al centro del rapporto messo a punto dall’Institute for Energy and Transport del Joint Research Centre della Commissione Europea. Il documento, intitolato Critical Metals in Strategic Energy Technologies, lancia l’allarme soprattutto su cinque materiali: indio, gallio, tellurio, neodimio e disprosio, i primi tre utilizzati nel fotovoltaico, gli ultimi due per realizzare gli impianti eolici.

I cinque metalli fanno parte dell’elenco delle cosiddette “Terre rare”, cioè quegli elementi chimici scarsamente disponibili, come si intuisce dal nome, e che però oggi stanno diventando sempre più indispensabili come componenti delle nuove tecnologie, da quelle legate alla Green economy fino ai più comuni telefoni cellulari.

La tensione creata dall’aumento della domanda non solo provoca un aumento dei prezzi di questi metalli, ma può generare delle vere e proprie crisi di scarsità.

Almeno per l’Europa, che è quasi completamente sprovvista di miniere da cui si estraggano Terre rare.

Il maggiore produttore al mondo (e il Paese con le maggiori riserve) è invece la Cina, che con il suo imponente sviluppo ha sempre più bisogno per la propria industria di queste materie.

E che può usare la propria posizione dominante anche come arma nei confronti degli altri Paesi.

Infatti la Cina ha già ridotto le esportazioni e continua la propria penetrazione in Africa, dove ci sono miniere di almeno alcuni elementi.

Già un anno fa l’amministrazione statunitense aveva lanciato un allarme del tutto simile a quello che oggi il Joint Research Centre paventa per il nostro continente.

Il rapporto del Jrc si è concentrato sulle tecnologie che l’Unione europea considera strategiche e che infatti sono incluse nello Strategic Energy Technology Plan (Set-Plan) della Commissione, ovvero eolico, fotovoltaico, nucleare, biomasse, sequestramento dell’anidride carbonica e creazione di reti intelligenti (smart grid).

Per capire quali materiali possano creare problemi gli esperti hanno messo a confronto la domanda che l’Europa potrebbe esprimere tra il 2020 e il 2030 e la produzione di ciascun elemento nel 2010.

Se la domanda europea supera l’uno per cento della disponibilità dello scorso anno, la situazione viene considerata a rischio.

E in questa fascia, in realtà si sono ritrovate ben 14 sostanze: oltre ai cinque metalli già citati nell’elenco ci sono stagno, afnio, argento, cadmio, nichel, molibdeno, vanadio, niobio e selenio.

Indio, gallio, tellurio, neodimio e disprosio sono però quelli messi peggio e considerati “ad alto rischio”.

Le strategie per far fronte alla situazione individuate dal gruppo di studio sono molte, ma nessuna sembra decisiva.

Si va dall’incentivare gli studi alla ricerca di accordi commerciali, dall’investimento sulle ricerche per riuscire a riciclare i materiali dai prodotti che man mano arrivano a fine vita alla ricerca di materiali alternative.

Il recupero attraverso il riciclaggio dei rifiuti, però non sembra per ora molto praticabile: anche se sarebbe più economico rispetto all’estrazione di nuovo materiale, è proprio impossibile dal punto di vista tecnologico.

E anche la sostituzione di metalli rari con altri elementi più facilmente disponibili o con nuovi composti non è ancora un’alternativa reale.

L’Europa, insomma, sembra destinata ancora a soffrire.

Le terre rare sono utilizzate in molti apparecchi tecnologici: superconduttori; magneti; catalizzatori; componenti di veicoli ibridi; applicazioni di optoelettronica (ad esempio laser Nd:YAG);fibre ottiche (erbio); risonatori a microonde (sfere di YIG, ovvero Yttrium iron garnet);

Gli ossidi delle terre rare sono mescolati al tungsteno per migliorare le sue proprietà alle alte temperature per saldature, rimpiazzando il torio che può risultare pericoloso da lavorare.

Il gruppo dei 17 elementi chimici che fanno parte delle “terre rare” sono abbastanza sparsi in tutta la crosta terreste, «Ma il problema è quello di trovare dei giacimenti con una concentrazione sufficiente per essere sfruttati».

E’ questa scarsità di terre rare che rende incerto e probabilmente caro il futuro della green economy e dell’elettronica di consumo che ha invaso le nostre case e le nostre vite, ma anche tecnologia delle energie rinnovabili.

Il mercato delle “terre rare”, gli elementi usati in quantità crescenti per diverse tecnologie all’avanguardia, vale nel mondo poco più di 3 miliardi di dollari all’anno ed è soggetto a imprevedibili variazioni di prezzo

È su queste basi, su questa situazione di stallo, che si è consolidato nel tempo il primato assoluto della Cina, il paese , come già scritto , che a tutt’oggi produce il 95% delle terre rare mondiali.

Questo piccolo segmento delle materie prime di uso industriale è nell’occhio del ciclone da un anno e mezzo, da quando cioè Pechino ha ridotto improvvisamente le proprie esportazioni del 40%, mettendo alle corde gli utilizzatori occidentali e in particolare le società giapponesi.

Almeno 5 elementi – disprosio, terbio, europio, neodimio e ittrio – rischiano di trovarsi in situazione di carenza di qui al 2015.

Ciò allarma in particolare le tecnologie messe in campo per l’energia pulita: turbine eoliche, pannelli solari, auto ibride, lampade ad alta efficienza consumano sempre maggiori quantità di queste terre rare, la cui domanda sta salendo a ritmi ben superiori a quelli mostrati da rame, alluminio e acciaio.

Le conseguenze sono tutt’ora ignote.

In molte applicazioni, dove sono necessari magneti forti e permanenti, non esiste un’alternativa immediata a questi metalli, capaci di mantenere un campo magnetico senza ricorrere a una fonte energetica per indurre il magnetismo.

I magneti comuni, inclusi quelli che appendiamo al frigorifero, sono permanenti, ma non abbastanza potenti, a diffrenza dei magneti di terre rare.

Le leghe di neodimio con ferro e boro sono, a parità di peso, quattro o cinque volte più potenti rispetto a qualunque altro materiale.

Questo è uno dei motivi per cui i magneti in terre rare vengono adoperati in quasi tutte le vetture ibride ed elettriche.

Il motore della Toyota Prius, per esempio, ne usa quasi un chilo, e le turbine eoliche offshore possono arrivare a richiederne diverse centinaia di chilogrammi ciascuna.

Una altra loro qualità minerale è che esercitano un magnetismo resistente ad altissime temperature , se qualcuno vuole sapere dove va il mondo, può prendere nota di un indizio: i tank della Us Army sono «made in China».

Non solo i carri armati, lo sono anche i missili intelligenti che inseguono il bersaglio.

E con quelli anche alcuni dei radar militari più sofisticati o i motori ibridi degli incrociatori della Marina.

Ovviamente non tutto di questi armamenti prodotti da grandi gruppi Usa come Lockheed Martin, Northrop Grumman o General Dynamics è «made in China»

Vengono da lì solo quelle piccole, invisibili componenti magnetiche che consentono a queste tecnologie di funzionare.

Fino ad ora l’approvvigionamento di tali terre è stato possibile grazie alla Cina.

Il motivo dello scarso entusiasmo occidentale per miniere di indio e tantalio è anche l’impatto ecologico della lavorazione di questi metalli.

Spesso, infatti, si trovano in vene che contengono anche materiali radioattivi, come il torio o l’uranio, che richiedono speciali – e costose – salvaguardie.: in una democrazia nessuno le vuole avere vicino a casa propria.

Servono tecnologie di tutela dei minatori, investimenti elevati, complesse autorizzazioni, tutto ciò di cui la Cina non si interessa.

I cinesi hanno avuto così via libera, spesso con estrazioni clandestine ed illegali, fino ad occupare appunto  il 95 per cento del mercato internazionale delle terre rare.

Da qualche anno, tuttavia, i cinesi stanno drasticamente limitando le esportazioni, sia perché stanno chiudendo le miniere ecologicamente più pericolose, sia perché le loro stesse industrie richiedono sempre più terre rare.

L’anno scorso, Pechino ha tagliato il suo export del 40 per cento e aumentato le scorte interne.

Quest’anno, nel primo trimestre, la più grossa azienda esportatrice cinese ha venduto solo mille tonnellate di terre rare, contro una media annuale, in passato, di 50 mila tonnellate.

Il risultato è una esplosione dei prezzi, che si è accelerata nelle ultime settimane: il costo del neodimio è salito del 74 per cento, quello del terbio del 128 per cento, il disprosio del 137 per cento, l’europio del 180 per cento, dal 25 maggio ad oggi.

È il classico caso di “tempesta perfetta”: da una parte il monopolio quasi totale della Cina, dall’altra il rapido aumento della domanda mondiale di terre rare da parte dei paesi industrializzati – che non potrà che aumentare ancora, con il prossimo sviluppo delle rinnovabili  e in mezzo l’aumento del consumo interno cinese.

Il risultato è una inevitabile bufera sull’affidabilità della fornitura di terre rare per il mercato globale

Insomma, un problema più economico che geologico.

Una soluzione per allentare la stretta sulle forniture di terre rare potrebbe essere il recupero dei materiali contenuti nei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.

Secondo i calcoli dell’Onu, oggi solo l’1 per cento di questi elementi cruciali per la moderna tecnologia viene riciclato e riutilizzato anche se sono presenti progetti pilota e ricerche mirate.

Che si stiano scatenando guerre commerciali, non solo per il petrolio, sembra interessi solo agli addetti ai lavori non certo per la maggior parte dei possessori di smartphone……

 

Possiamo scrivere che la competizione con la Cina non sarà più solo per la manodopera a basso costo ?

Cosa si nasconde dietro la crescita esplosiva dell’economia cinese? Quali “effetti collaterali” comporta la cavalcata trionfale del drago dagli occhi a mandorla? Alcune risposte a queste domande sono contenute nel film intitolato Beijing Beseiged by Waste, realizzato nel 2010 da Wang Jiuliang. E non si tratta, purtroppo, di risposte positive. Il prezzo che la Cina sta pagando in cambio del cosiddetto sviluppo è altissimo: livelli di inquinamento insostenibili, enormi discariche traboccanti di sostanze tossiche, schiere di disperati che su queste distese di rifiuti si trascinano alla ricerca di briciole utili per svoltare la giornata. Acqua contaminata, fumi cancerogeni, ettari ed ettari di suolo compromessi per chissà quanti anni. E, non da ultimo, orde di poverissimi senza alcuna prospettiva (che ne è stato del sogno egualitario della Rivoluzione Culturale?).

La minaccia, sociale e ambientale insieme, non riguarda soltanto la Cina. Le risorse che le rampanti aziende della nuova potenza economica sottraggono a ritmi forsennati dalle riserve planetarie non sono infinite. E la storia ci ha dimostrato molte volte (senza insegnarcelo, a quanto pare) che i gravi fenomeni di inquinamento sono raramente circoscritti in una determinata area geografica. Per non parlare delle possibili conseguenze sul piano sociale e geo-politico. Quanto impiegherà il governo cinese a capire che anche la mole spaventosa di rifiuti può rappresentare una risorsa, e che neanche i territori sconfinati della Cina possono reggere a lungo un peso del genere? E quanto impiegherà il mondo occidentale per negare la sua complicità? Questa volta non sarà un film, purtroppo, a darci la risposta.

 

03/03/2012

Fonte:  http://www.cercageometra.it

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