Tutto sulla fattura (2/3)

Sia per il cedente che per il cessionario, la fattura va conservata per motivi fiscali fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di effettuazione dell’operazione, o del sesto anno se la relativa dichiarazione IVA non è stata presentata oppure è stata dichiarata nulla.

Se in questo frattempo sono iniziate attività di verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate o della Guardia di Finanza, la fattura va conservata fino alla conclusione di tali operazioni, se esse terminano oltre le date indicate.

Si ricorda, inoltre, che per tutti gli imprenditori non agricoli e non “piccoli” (secondo la definizione dell’art. 2083 del Codice Civile), le fatture e tutti gli altri documenti aziendali vanno conservati per dieci anni per gli scopi civilistici, come il loro utilizzo come mezzo di prova nei processi civili e fallimentari.


Se la fattura è stata emessa in formato elettronico, essa va conservata con mezzi altrettanto innovativi: sistemi digitali od ottici che ne garantiscano l’immutabilità e la leggibilità nel tempo. Appositi decreti ministeriali descrivono tecnicamente l’impostazione e il funzionamento di tali archivi digitali o a lettura ottica.

Se invece la fattura è stata emessa in formato analogico, la conservazione può avvenire liberamente in normali raccoglitori, oppure può essere scannerizzata per essere trasformata in fattura elettronica ed essere conservata di conseguenza.


La scelta fra queste due soluzioni, come accennato, è libera. Una volta che però si scegliesse la seconda opzione, questa è una scelta definitiva e irrevocabile, tanto che occorre inviare all’Agenzia delle Entrate la cosiddetta “impronta digitale” del proprio archivio.
L’archivio digitale, in realtà, può riguardare non solo le fatture ma l’intero apparato contabile dell’impresa. Fermi considerati i vincoli descritti, comunque, è consentito scegliere liberamente quali tipologie di documenti conservare in formato analogico e quali in formato elettronico-ottico.

 

 

L’obbligo di emettere la fattura, com’è ovvio, ricade solitamente su colui che presta il servizio o cede il bene oggetto dell’operazione (il cedente) nei confronti della controparte, il cliente o committente di turno (il cessionario).

Vi sono tuttavia alcuni casi previsti dalla legge in cui l’obbligo di emettere la fattura ricade sul cessionario: sarà quest’ultimo, dunque, ad emettere due copie del documento, di cui una andrà nelle mani del cedente. Ovviamente questo è possibile solo quando anche il cessionario è titolare di partita IVA.

Questo meccanismo è definito “di inversione contabile” (o “reverse-charge”), ed è adottato talvolta come misura contro l’evasione, altre volte per semplificare gli adempimenti dei piccoli esercenti.


Per esempio, questo avviene in alcuni casi in cui è ceduta un’abitazione e l’operazione è imponibile ai fini IVA (esistono delle regole molto complesse per questa tipologia di operazioni, che per semplicità si omettono), oppure quando un piccolo agricoltore cede i propri prodotti, o ancora nell’ipotesi di compravendita di rottami ferrosi.

Poiché ha dato buoni risultati, è probabile che il meccanismo di “reverse-charge” sia destinato in futuro ad essere esteso anche in altri ambiti.
Al di là dei casi in cui è obbligatorio, comunque, è sempre consentito che le parti si accordino affinché la fattura sia emessa ad opera del cessionario.


É anche possibile che il cedente affidi l’incarico di emettere le fatture ad un terzo per suo conto, per esempio incaricando il commercialista di fiducia o una società di servizi.
Quando la fattura è emessa dal cliente oppure da un terzo, però, è necessario che tale informazione sia indicata all’interno della fattura stessa. Nel caso del terzo, naturalmente, occorrerà indicare anche i dati anagrafici del medesimo.

Una volta stabilito quando e come emettere la fattura, si tratta di vedere il “cosa”, ossia il contenuto della fattura.

L’articolo 21 della legge IVA stabilisce il contenuto minimo: si tratta cioè degli elementi che obbligatoriamente devono comparire sempre nella fattura. Oltre a questi dati, però, l’emittente può inserire liberamente ogni altro elemento che desideri: i loghi aziendali, i messaggi pubblicitari, il numero di fax, le scadenze di pagamento ecc.

La stessa libertà riguarda anche il formato della fattura, se cartacea: non ha nessuna importanza se si preferisce ricorrere a moduli prestampati o creati dallo stesso emittente, né se si ricorre al formato A4 o ad uno meno comune.


In teoria, persino un pezzetto di carta strappato da un libro può servire da substrato della fattura: quello che conta, si ripete, è che sia presente il contenuto minimo prescritto dall’articolo 21.
Prima di descrivere questo fantomatico “contenuto minimo”, comunque, è bene precisare che qualunque documento che presenta questi elementi costituisce “fattura”.

L’articolo 21 lo dice esplicitamente: che lo si definisca “parcella”, “conto”, “nota”, “bolletta” o in qualsiasi altro modo, un documento che presenta il contenuto minimo è a tutti gli effetti una fattura, con tutte le conseguenze di legge che ne derivano, senza eccezioni.



In particolare, fra i professionisti esiste la pratica di emettere la parcella solo al momento del pagamento del corrispettivo (come la legge consente), ma di farla tuttavia precedere da una “notula”, o “avviso di parcella” che dir si voglia, per informare il cliente dell’ammontare del suo debito.

É bene che il professionista la rediga in maniera il più possibile sintetica, perché se invece inserisse il famoso “contenuto minimo”, allora egli avrebbe emesso un’autentica fattura, senza nessuna possibilità di spiegare che la vera parcella deve ancora arrivare.

Esaminiamo dunque il contenuto minimo obbligatorio di ogni fattura.
Innanzitutto, essa deve contenere la data di emissione e il numero. Ogni fattura, infatti, deve essere numerata progressivamente per anno solare; è anche ammesso detenere distinte numerazioni, quando ve ne sia l’esigenza.

Per esempio, ipotizziamo una società con due filiali in due città diverse: è evidente che per motivi pratici sarebbe troppo complesso ricondurre le fatture di entrambi ad una stessa numerazione. Perciò, sarà bene adottare due numerazioni diverse, da contraddistinguere magari aggiungendo una lettera. Per cui, la prima filiale numererà le sue fatture 1/A, 2/A, 3/A eccetera, mentre la seconda le chiamerà 1/B, 2/B, 3/B e così via.


La fattura deve poi contenere alcuni dati riferiti al cedente: nome e cognome o ditta, se persona fisica, oppure denominazione sociale se è una società o un ente diverso; l’indirizzo; il numero di partita IVA.
Per quanto riguarda l’indirizzo la legge non dà indicazioni particolari: perciò è possibile indicare la residenza, la sede legale o quella operativa, la filiale di riferimento. Non guasta, comunque, indicare tutti questi luoghi, per ogni cautela.


Le indicazioni successive riguardano invece il cessionario: nome e cognome o ditta o denominazione sociale e indirizzo. Non occorre indicare la Partita IVA, di cui d’altronde il cliente potrebbe essere sprovvisto.

Né per il cedente né per il cessionario è richiesto di indicare il codice fiscale, anche se è un’informazione che comunque può ritornare utile e dunque consigliabile.
Occorre poi indicare la natura dell’operazione, specificando le caratteristiche del servizio offerto o la quantità e qualità dei beni ceduti. Quest’indicazione può essere espressa in maniera molto sintetica, ma in ogni modo è indispensabile fare in modo che un ipotetico terzo sia messo in grado di afferrare in cosa sia consistita l’operazione.

 

 

01/2009

Fonte:  http://www.cercageometra.it

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